S.Camillo De Lellis 1550/1614
S.Luigi Conzaga 1568/1592
S.Giovanni Giuseppe Della Croce 1654/1734
V. Biagio Oppertis 1561 ?
V. Francesco de Geronimo 1642/ 1716
San Camillo de Lellis | |
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Fondatore dell' Ordine religioso dei Chierici regolari Ministri degli Infermi |
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Nascita | 1550 |
Morte | 1614 |
Venerato da | Chiesa cattolica |
Beatificazione | 1742 |
Canonizzazione | 1746 |
Ricorrenza | 14 luglio |
Attributi | croce rossa sulla tunica |
Patrono di | malati, ospedali, personale ospedaliero |
San Camillo de Lellis (Bucchianico, 25 maggio 1550 – Roma, 14 luglio 1614) è stato un religioso e presbitero italiano.
Fu il fondatore dell'Ordine dei Chierici Regolari Ministri degli Infermi (Camilliani). Nel 1746 è stato proclamato santo da papa Benedetto XIV e, insieme a san Giovanni di Dio, Patrono universale dei malati, degli infermieri e degli ospedali
[modifica]Biografia |
Camillo nacque da una famiglia appartenente alla piccola aristocrazia della cittadina abruzzese di Bucchianico: alla nascita, gli venne imposto il nome della madre (Camilla Compelli), che lo aveva partorito a quasi 60 anni di età e che morì quando Camillo aveva 13 anni; il padre, Giovanni, era un ufficiale al servizio della Spagna.
Giovane pigro e rissoso, il padre decise di avviarlo alla carriera militare. Ma, nel 1570, un'ulcera al piede lo costrinse ad abbandonare la compagnia.
Per farsi curare fu costretto a recarsi a Roma, nell'ospedale di San Giacomo degli Incurabili. Dopo la guarigione venne assunto come inserviente presso l'ospedale, ma l'esperienza fu breve: per la sua scarsa propensione al lavoro, venne allontanato.
Intanto il padre era morto. Tornò a dedicarsi alle armi, come soldato di ventura, mettendosi a servizio prima di Venezia, poi della Spagna. Ma presto tornò a condurre una vita dissoluta.
Iniziò a vagabondare per l'Italia, fino a quando non venne assunto dai Cappuccini del convento di Manfredonia. È qui che iniziò il suo percorso verso la conversione (nella Valle dell'inferno tra Manfredonia e San Giovanni Rotondo): nel 1575 decise di abbracciare la vita religiosa e di diventare un frate cappuccino a Trivento. Ma l'antica piaga al piede tornò a dargli problemi: fu così costretto a tornare a Roma per curarsi.
Rimase nell'ospedale degli Incurabili per ben quattro anni. Qui maturò definitivamente la sua vocazione all'assistenza dei malati e, insieme ai primi cinque compagni che, seguendo il suo esempio, si erano consacrati alla cura degli infermi, decise di dare vita alla "compagnia dei Ministri degli Infermi" i cui primi statuti vennero approvati da papa Sisto V il 18 marzo 1586. Camillo si trasferì nel convento della Maddalena e iniziò a prestare servizio presso l'ospedale di Santo Spirito in Sassia.
Intanto, sotto la guida spirituale di Filippo Neri, riprese gli studi e, il 26 maggio 1583, fu ordinato sacerdote.
La sua "Compagnia" si distinse subito e, il 21 settembre 1591, fu riconosciuta come Ordine religioso (Ordine dei Chierici Regolari Ministri degli Infermi) dapapa Gregorio XIV rimasto impressionato dall'eroismo con cui Camillo e i suoi compagni avevano assistito i malati durante la carestia del 1590 a Roma . L'8 dicembre 1591 Camillo e i suoi primi compagni emisero la Professione religiosa di voti solenni con un quarto voto di assistenza dei malati anche con pericolo della vita. Era nato un nuovo Ordine religioso.
L'Ordine si espanse rapidamente in molte città italiane in cui Camillo fondò nuove comunità tutte al servizio dei grandi nosocomi cittadini. Le prime comunità sorsero a Napoli, Milano, Genova, Palermo, Bologna, Mantova.
Gravemente malato, nel 1607 lasciò la direzione dell'Ordine ma continuò ad assistere i malati fino alla morte, avvenuta il 14 luglio 1614 nel convento della Maddalena, che era diventato sede del suo Ordine, dove fu tumulato: la reliquia del suo cuore fu traslata a Bucchianico.
Fu beatificato il 7 aprile 1742 da Benedetto XIV, che lo canonizzò il 29 giugno 1746.
Nel 1886 papa Leone XIII lo dichiarò, insieme a san Giovanni di Dio "Patrono degli ospedali e dei malati"; Pio XI, nel 1930, lo proclamò, sempre insieme al fondatore dei Fatebenefratelli, "Patrono degli infermieri"; Paolo VI, infine, nel 1974, lo proclamò anche "Protettore particolare della sanità militare italiana".
La sua memoria viene celebrata il 14 luglio come solennità nelle Chiese dell'Ordine e come memoria nelle altre chiese.
San Giovan Giuseppe della Croce (Carlo Gaetano Calosirto) Francescano Alcantarino |
Ischia, 15 agosto 1654 - S. Lucia al Monte, 5 marzo 1734 Carlo Gaetano Calosirto nacque a Ischia nel 1654. A 15 anni entrò come Giovan Giuseppe della Croce tra i Francescani scalzi della riforma di san Pietro d'Alcantara, detti anche alcantarini, nel convento napoletano di Santa Lucia al Monte, dove condusse vita ascetica. Insieme a 11 frati fu mandato, poi, nel santuario di Santa Maria Occorrevole di Piedimonte d'Alife, dove fece costruire un convento. Poi fu contemporaneamente a Napoli come maestro dei novizi e a Piedimonte come padre guardiano. Quando agli inizi del Settecento ramo spagnolo e italiano dell'ordine si divisero (fino al 1722), lui guidò il secondo come ministro generale. Morì nel 1734. Fu canonizzato nel 1839 con Alfonso Maria de'Liguori e Francesco de Geronimo, dei quali era stato consigliere. Le sue spoglie riposano nel convento di Santa Lucia al Monte. (Avvenire) Martirologio Romano: Sempre a Napoli, san Giovanni Giuseppe della Croce (Carlo Gaetano) Calosirto, sacerdote dell’Ordine dei Frati Minori, che, sulle orme di san Pietro di Alcántara, ripristinò la disciplina religiosa in molti conventi della provincia napoletana. |
Le doglie colgono donna Laura Gargiulo il 15 agosto 1654, mentre sta passeggiando nel borgo di Ischia, ad una certa distanza dal signorile e
fortificato palazzo in cui abita. Così Carlo Gaetano, il suo terzo figlio, viene alla luce nella modesta stanzetta di una donna del popolo che generosamente e prontamente accoglie
la partoriente. Quasi un segno che, quel bambino, non è destinato ad abitare a lungo nel palazzo dei Calosirto, una delle famiglie più in vista a facoltose di Ischia. Sarà per
inclinazione naturale, sarà per “colpa” della famiglia profondamente religiosa in cui si prega molto, si digiuna a pane ed acqua in ogni vigilia di festa comandata, e dove si
respira una grande devozione alla Madonna, ma quel bambino sembra davvero portato alla vita religiosa, complici anche i padri agostiniani cui i genitori affidano la sua
preparazione culturale e religiosa. Ma non è da questi che il ragazzino si rivolge, a 15 anni appena compiuti, per realizzare la sua vocazione: ha conosciuto nel frattempo i frati
alcantarini e si sente attratto dall’austerità di vita di questi Francescani che si ispirano alla riforma attuata da san Pietro d’Alcantara. A 16 anni entra così nel loro convento
napoletano di Santa Lucia al Monte; qui, insieme al nuovo nome di Giovan Giuseppe della Croce, riceve una forte spinta verso la vita ascetica, grazie ad un Maestro dei novizi
particolarmente ispirato. Dopo la professione religiosa, insieme a 11 confratelli si trasferisce a Piedimonte d’Alife, per costruire un nuovo convento nelle vicinanze del
santuario di Santa Maria Occorrevole. E’ giovanissimo, ed è qui che si innamora: del silenzio abitato da Dio, della preghiera lunga e fervorosa, della meditazione prolungata e
trasformatrice. Che però, come sempre avviene per i santi autentici, non riescono ad estraniarlo dal mondo, ma gli donano una sensibilità maggiore per scoprire, soprattutto fra le
pieghe della sua Napoli, le mille contraddizioni e le tante miserie, nelle quali egli si muove perennemente scalzo, anche e ben al di là della sua Regola, con qualsiasi tempo e
malgrado ogni intemperie. Tanto che una volta si ammala, così gravemente da temere per la sua vita; appena guarito, eccolo nuovamente per strada, instancabile tra un malato da
curare ed un moribondo da assistere. Perché Padre Giovan Giuseppe, non aspetta che i poveri arrivino a lui, preferisce andarseli a cercare direttamente nei tuguri e nelle
soffitte. Cadono su di lui le responsabilità della sua famiglia religiosa: umilmente le svolge, e anche con successo, come dimostra la delicata situazione che porta alla
spaccatura tra gli Alcantarini di Spagna e quelli d’Italia. Di questi ultimi egli diventa superiore, ma continuando a lavorare per la riunificazione della famiglia alcantarina che
riesce ad attuare dopo vent’anni, durante i quali colleziona critiche e calunnie capaci di smontare chiunque. Ma non lui, che nel silenzio al quale si è votato trova il suo più
prezioso alleato per non rispondere male per male e per generosamente perdonare anche il più accanito calunniatore. Sulla sua strada fioriscono miracoli: parlano di bilocazioni,
lievitazioni, profezie, guarigioni, moltiplicazioni, addirittura della risurrezione di un bambino: ma prima di ogni cosa è autenticamente prete, ricercato per la confessione e la
direzione spirituale anche da santi autentici, come S. Alfonso Maria de’ Liguori e San Francesco de Geronimo, insieme ai quali (quando si dice scherzi della Provvidenza!) Padre
Giovan Giuseppe della Croce Calosirto verrà canonizzato nel 1839. Ma santo nel cuore della gente lo era già da vivo e soprattutto da quel 5 marzo 1734 in cui, ottantenne, aveva
chiuso gli occhi, nello stesso convento napoletano in cui era entrato 65 anni prima. Nacque ad Ischia con il nome di Carlo Gaetano Calosirto, il 15 agosto del 1654 nel borgo di Ponte, figlio del nobile Giuseppe e di donna Laura Gargiulo. Frequentò nell’isola i padri agostiniani da cui ricevette la prima formazione umanistica e religiosa; a 15 anni scelse la vita religiosa per la grande attrazione che esercitava sul suo animo, aderendo ai Francescani scalzi della Riforma di s. Pietro d’Alcantara, detti anche alcantarini, per la loro vita austera, dipendenti dal convento di S. Lucia al Monte in Napoli. Cambiò il nome in quello di Giovan Giuseppe della Croce e fece il noviziato sotto la guida ascetica di padre Giuseppe Robles. Nel gennaio 1671 fu inviato insieme ad altri 11 frati, di cui egli era il più giovane, presso il santuario di s. Maria Occorrevole a Piedimonte d’Alife, dove grazie alla sua fattiva opera fu costruito un convento, divenne sacerdote il 18 settembre 1677. Durante la sua permanenza a Piedimonte, fece costruire in una zona più nascosta del bosco un altro piccolo conventino detto “la solitudine”, ancora oggi meta di pellegrinaggi, per poter pregare più in ritiro; per parecchi anni guidò contemporaneamente il noviziato a Napoli come maestro, e il convento a Piedimonte come padre guardiano, adoperandosi tra l’altro in forma molto attiva per la costruzione del convento del Granatello in Portici (Napoli). Agli inizi del 1700 il Movimento Francescano subì una tempesta organizzativa dovuta ai forti dissensi sorti fra gli alcantarini provenienti in gran parte dalla Spagna e fra quelli italiani, che provocò, con l’approvazione pontificia, la separazione dei due gruppi per le loro nazionalità; gli spagnoli ottennero il convento di S. Lucia al Monte e del Granatello. Padre Giovan Giuseppe, nominato capo e guida del gruppo italiano, dovette barcamenarsi in tutte le difficoltà che venivano poste dai potenti confratelli spagnoli, richiamò i circa 200 frati ad un rispetto più conforme alla Regola, riordinò gli studi. Scaduto il suo mandato, ebbe dall’arcivescovo di Napoli, cardinale Francesco Pignatelli, l’incarico di dirigere settanta fra monasteri e ritiri napoletani, uguale incarico l’ebbe anche dal cardinale Innico Caracciolo per la diocesi di Aversa. Essendo qualificato direttore di coscienze, a lui si rivolsero celebri ecclesiastici, nobili illustri, persino s. Alfonso Maria de’ Liguori e s. Francesco de Geronimo; il Signore gli donò vari carismi, come la bilocazione, la profezia, la lettura dei cuori, la levitazione, apparizioni della Madonna e di Gesù Bambino, i miracoli come quello della resurrezione del marchesino Gennaro Spada, fu visto passare per le strade di Napoli sollevato di un palmo da terra in completa estasi. Il 22 giugno 1722 con decreto pontificio i due rami alcantarini, furono riuniti di nuovo e quindi anche il convento di S. Lucia al Monte ritornò ai frati italiani ed è lì che Giovan Giuseppe della Croce, dopo averci vissuto per altri dodici anni, morì il 5 marzo 1734; la sua tomba posta nel convento è stata ed è tuttora centro di grande devozione dei napoletani che lo elessero loro compatrono nel 1790. Beatificato da papa Pio VI il 24 maggio 1789, fu poi elevato agli onori degli altari come santo da papa Gregorio XVI il 26 maggio 1839, insieme ad altri quattro santi: Francesco de Geronimo, Alfonso Maria de’ Liguori, Pacifico di S. Severino e Veronica Giuliani. L’isola d’Ischia, che da sempre l’ha venerato e amato come suo carissimo e grande figlio, ha fatto richiesta affinché le spoglie del santo vengano trasferite da S. Lucia al Monte in Napoli al convento francescano dell’isola, fra la sua originaria gente.
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S.G.Giuseppe della Croce
S. FRANCESCO DE GERONIMO (1642-1716)
Questo Santo fu apostolo, profeta, taumaturgo e padre dei poveri. Nacque a Grottaglie (Taranto) il 17-12-1642.. A ventisette anni chiese di essere ammesso al noviziato della Compagnia di Gesù. Fu quaresimalista apprezzato, missionario; predicatore di innumerevoli corsi di esercizi spirituali; riformatore di monasteri femminili; cultore infaticabile di vocazioni sacerdotali e religiose; direttore spirituale di aristocratici, consigliere di vescovi e prelati.
primogenito degli undici figli di Gianleonardo, proprietario di campi e di una conceria di pelli. Nell'infanzia Francesco si mostrò tanto riservato da meritare il soprannome di "angelo", e tanto amante dei poveri da destare preoccupazioni nella madre. Un giorno esaurì in elemosine tutta la provvista di pane. "E adesso cosa vi darò da mangiare?" gridò la mamma appena se ne accorse. Il piccino, con grande rispetto, le rispose; "Guardate nell'armadio e vedrete se il Signore ci lascerà mancare il necessario oggi!". L'impaziente genitrice lo aprì e lo trovò colmo di pane fragrante.
A dieci anni Francesco fu posto nel convitto retto da un gruppo di ecclesiastici del paese. Vi rimase fino ai diciassette anni con il compito d'insegnare il catechismo ai bambini e di tenere la
chiesa in ordine. In quel tempo sbocciò nel suo cuore il seme della vocazione al sacerdozio. Vi si preparò con grande impegno nel seminario di Tarante e, quindi, a Napoli dove si era recato per
laurearsi in utroque iure. Dopo l'ordinazione sacerdotale (1666) i Gesuiti del "Collegio dei Nobili" lo invitarono a coadiuvarli nell'ufficio di istitutore. Per cinque anni Don
Francesco guidò negli studi, nelle devozioni e negli svaghi i convittori già grandi con tanta diligenza da meritarsi il titolo di "prefetto santo". Nel richiamare un giorno all'ubbidienza il
figlio di un duca si ricevette sul volto uno schiaffo. Senza scomporsi, il santo gli si inginocchiò davanti, gli chiese perdono come se fosse stato lui il reo, e gli offerse l'altra
guancia.
A ventisette anni il De Geronimo chiese di essere ammesso al noviziato della Compagnia di Gesù, nonostante l'opposizione del padre. Sempre umile, fervente e mortificato, il santo fu ubbidiente
fino all'inverosimile. Ebbe molto da soffrire perché il suo maestro gli permise di celebrare la Messa soltanto tre volte la settimana, ma Gesù stesso lo consolò dandogli la comunione di sua mano
nei giorni in cui gli era interdetta la celebrazione del divino sacrificio.
Dopo il noviziato, P. Francesco fece parte a Lecce, nella casa santificata da S. Bernardino Realino (+1616), della "missione volante salentina". Dal 1671 al 1674 egli profuse i tesori del Vangelo
per tutta la Puglia con grandi frutti spirituali. Nel 1675, mentre compiva nel "Collegio massimo" di Napoli il corso teologico, concepì il disegno di recarsi a predicare nell'estremo oriente.
Scrisse quattro lettere di supplica al Proposito Generale, ma questi gli rispose essere volontà di Dio che si dedicasse alle "Indie di Napoli", vicereame spagnuolo fino al 1707.
I napoletani erano stati sempre oggetto delle cure più sollecite da parte dei Gesuiti. Il loro "padre missionario" per giungere all'infima plebe si serviva di duecento volenterosi artigiani,
costituenti la "congregazione della missione" con oratorio proprio. P. Francesco li seppe entusiasmare così con i suoi fervorini e le premure che si prendeva della loro necessità, da trasformarli
in validi cooperatori. Lo seguivano dovunque, gli conducevano i peccatori, gli segnalavano i casi più pietosi, e durante le sue missioni agli angoli delle vie, nei quartieri più malfamati o in
piazza Castello, vera sentina di vizi, essi mantenevano l'ordine tra gli uditori. Al dire del santo, la città di Napoli "era un bosco pieno di fiere, cioè di peccatori", ma egli ne convertì molte
migliaia con la sua rara eloquenza, la sua voce possente e il dono dei miracoli. Ad uno dei suoi più vecchi congregati era morta la figlia. Trovandosi al verde, costui aveva mandato il figlio
alla residenza del santo per supplicarlo di un sussidio.
Quando seppe che P. Francesco si trovava a predicare nella diocesi di Noia, pensò di impegnare alcuni mobili per provvedere al funerale della figlia. Mentre ne dava l'incarico ad alcuni amici udì
bussare alla porta. Era P. Francesco che aveva udito il gemito del suo cooperatore ed era accorso, miracolosamente, a portargli un involto contenente venti ducati e a rassicurarlo che la figlia,
sua penitente, si trovava in paradiso.
Per quarant'anni P. Francesco predicò la missione a Napoli sulla piazza del Castello Nuovo. I suoi congregati uscivano dalla chiesa del Gesù Nuovo in fila ordinata, preceduti da un grande
crocifisso e dallo stendardo raffigurante la SS. Vergine nell'atto di trafiggere il dragone infernale, con la scritta: "Maria nemica del peccato". Li seguiva P. Francesco, fiancheggiato da
studenti di teologia e da giovani sacerdoti desiderosi di addestrarsi con lui al ministero sacro. Un gruppo di cantori alternava al canto delle litanie lauretane, l'inno della congregazione. Al
loro passaggio la gente si segnava e si accodava al corteo. Se il santo, lungo il cammino, vedeva degli operai lavorare nelle botteghe, con dolcezza li invitava a seguirlo. Lo stesso faceva con
chi, all'ingresso dei vicoli, si abbandonava con lazzi e moccoli ai soliti giochi plebei. All'apparire della processione i ladri, gli usurai, i biscazzieri e i saltimbanchi brontolavano tra una
maledizione e un'ingiuria, mentre i congregati si spargevano tra la folla a fare opera di persuasione. P. Francesco distribuiva i giovani missionari, affiancati ciascuno da un gruppetto di
congregati, sulle due zone limitrofe della piazza rigurgitante di soldati, barcaioli e scaricatori intenti a bere, a giocare e a bestemmiare, e poi saliva su di un palco, nel centro della piazza,
e dava inizio alla missione.
L'apostolo parlava con gli occhi rivolti al cielo quasi a prendere l'ispirazione da Dio. Il tono della voce, già forte all'inizio, si elevava fino a diventare potente quale tuono e terribile come
ruggito, mentre il suo corpo, per veemenza di sentimento, era agitato da un fremito irriproducibile. A ragione la gente diceva di lui: "Quando parla è un agnello, quando predica è un leone". Ai
primi segni di emozione degli uditori il santo lasciava traboccare dal labbro le fiamme del suo cuore nella perorazione finale, da lui affidata sempre all'improvvisazione del momento. In essa
prevalevano i più teneri accenti dì compassione verso i poveri peccatori. "Io non vado in cerca di anime devote - diceva piangendo - ma delle più perdute e disperate". Alla voce delle lacrime
aggiungeva quella del sangue. Si levava difatti di tasca una catena di ferro e si batteva sulla schiena fino a farla rosseggiare. Sulla piazza la gente sospirava, si batteva il petto e invocava
pietà e misericordia. Allora il missionario, per allargare i cuori contriti alla confidenza, conchiudeva la predica, come aveva incominciato, con un pensiero sulla Madonna, e invitava tutti a
seguirlo in processione al Gesù Nuovo per riconciliarsi con Dio.
Tutti i marinai, i pescatori e gli operai della peggiore risma che accoglievano il suo invito, P. Francesco li conduceva in un oratorio sotterraneo, per una decina di minuti li eccitava al
pentimento dei peccati, poi li esortava a dare di piglio ai flagelli di corda apparecchiati attorno all'altare e a battersi con lui sulle spalle alla recita del Miserere e a
lumi spenti. I penitenti risalivano quindi alla chiesa del Gesù Nuovo e si spargevano per i confessionali dove i numerosi padri di "Casa professa" erano pronti ad ascoltarli fino a notte
inoltrata. Dal 1678 al 1693 si ha un calcolo di oltre 4.000 "pesci grossi" presi dal santo nella rete di Cristo, ma fino alla sua morte il numero andò crescendo.
Per quarant'anni, P. Francesco andò pure a predicare nel pomeriggio delle feste fra settimana, allora numerose quasi quanto le domeniche, nei quartieri della prostituzione, con un corteo composto
questa volta dai congregati più maturi. All'apparire del predicatore le infelici vittime della mala vita correvano a rinchiudersi nelle loro tane. Se qualche sfacciata si attardava provocatrice
lungo il cammino, il santo la scacciava battendola sulle spalle con la corona del rosario dai grossi grani infilati a robusta minugia. Appena si formava un primo gruppo di uditori, squillava il
campanello e il missionario, fiancheggiato dal crocifisso e dal labaro mariano, incominciava a tuonare contro il vizio per farsi sentire anche dalle sciagurate che s'affacciavano dalle finestre,
facevano capolino dall'uscio di casa o si spingevano fino allo sbocco del loro vicolo infame. Alla fine si flagellava spietatamente per far penitenza dei peccati che si commettevano in quella
zona. Coloro che resistevano alle sue infuocate parole, erano vinti a quell'ultimo commovente spettacolo. Certe sere, nel ritorno alla chiesa del Gesù Nuovo, conduceva con sé fino a quindici
meretrici pentite. Per la loro sistemazione nei conservatori e nel monastero delle pentite, spese somme ingenti elargitegli dalla generosità dei buoni.
Una certa Cinzia aveva messo su una scuola di vizio. P. Francesco andava sovente a inveire sotto la finestra di lei, ma invece di convertirsi, l'ostinata gli mandava dietro giovinastri e leoni a
minacciarlo di morte se non la smetteva. Quando morì, il missionario andò a predicare ancora una volta sotto le finestre di lei, poi ne fece gettare il cadavere sul dorso di un asino e
l'accompagnò al cimitero degli impenitenti, lanciando per via ai passanti atterriti le più gravi minacce della giustizia di Dio. Ne seguirono conversioni in massa. Caterina, invece, altra celebre
cortigiana, ogni volta che il santo andava a predicare all'angolo del suo postribolo lo disturbava con beffe, suoni e canti. Una volta il santo andò a bussare alla sua porta pregandola di
smettere. Quella meretrice non gli aperse neppure, "Fra otto giorni - esclamò allora lui - te la dovranno scassinare questa porta perché non la potrai più aprire". Una settimana dopo P. Francesco
ritornò a predicare al solito posto. Caterina non apparve più alla finestra a schiamazzare. Il santo gridò; "Caterina è morta". La folla penetrò nell'appartamento di lei dopo aver sfondato la
porta. La meschina fu trovata distesa sul letto. Il santo per tre volte le gridò: "Caterina, dove sei?". L'impenitente gli rispose, animandosi momentaneamente: "Mi trovo
all'inferno!".
Mentre predicava presso il Ponte di Ghiaia, da un palazzo vicino uscì un superbo cocchio con due cortigiane e due cicisbei. P. Francesco fece loro cenno di attendere per non disturbare
l'uditorio. Quegli insolenti non se ne diedero per intero. Allora il santo, rivolto al crocifisso, esclamò ad alta voce: "O Signore, se queste femmine non ti prestano rispetto, ti porteranno
rispetto questi cavalli". All'istante, le due bestie s'inginocchiarono con ambedue le zampe anteriori, e restarono così per un buon tratto. Il cocchiere cadde di serpa svenuto; una meretrice
corse a inginocchiarsi davanti alla croce; il popolo esultò commosso al trionfo di Dio.
Nel pomeriggio dei giorni feriali, P. Francesco usciva di casa insieme con un fratello o un congregato e s'inoltrava, armato di un campanello e di un piccolo crocifisso alla cintola, nei vicoli,
nelle carceri, nelle caserme, nelle galere, nelle casupole e nelle barche in riva al mare per spiegare a tutti i rudimenti della fede, per mettere pace nelle famiglie e fare da moderatore nelle
emergenze sociali senza mai fare della politica. Ogni mese, nei nove giorni precedenti la terza domenica, sia che piovesse o che dardeggiasse il sole, a piedi o a dorso di un giumento, egli
percorreva tutte le località circostanti Napoli per ammaestrare il popolo nelle chiese, sulle spiagge e nei campi. Certi giorni giungeva a fare fino a quaranta brevi prediche. Il popolo
rispondeva ai suoi inviti. La terza domenica di ogni mese infatti una massa imponente di 12-14.000 persone, dai trentasei "casali" che circondavano il "distretto" di Napoli, saliva a ondate
successive, dall'alba al mezzogiorno, al Gesù Nuovo per fare la comunione. I disciplinati, uomini e donne, con una corona di spine in fronte e un flagello nella destra, si battevano a sangue
mentre, tra il pianto universale, P. Francesco disponeva i vari gruppi all'incontro con il Signore, Sei giorni dopo la sua morte le comunioni raggiunsero la cifra di 42.000.
Tanta operosità non bastò ancora al cuore dell'apostolo. Per farsi, come S. Paolo tutto a tutti, egli fu quaresimalista apprezzato sui principali pergami del Vicereame; annalista per ventidue
anni nella chiesa napoletana detta Santa Maria di Costantinopoli; missionario di provincia; predicatore di innumerevoli corsi di esercizi spirituali al pubblico e alle comunità religiose;
riformatore di monasteri femminili; cultore infaticabile di vocazioni sacerdotali e religiose; direttore spirituale di aristocratici e professionisti di primo rango; consigliere ricercatissimo di
vescovi e prelati.
I prediletti di P. Francesco furono i pargoli. Tanti ne guarì con un segno di croce o ungendoli con l' "olio di S. Ciro" verso cui nutriva una particolare devozione, e ne risuscitò uno che la
mamma gli aveva posto nel confessionale, morto, perché non aveva di che pagare la sepoltura. Prima che nascesse S. Maria Francesca dalle Cinque Piaghe (+1791), il santo tranquillizzò la madre di
lei profetandole che avrebbe dato alla luce una bambina prodigiosa. In casa di Giuseppe de' Liguori benedisse S. Alfonso (+1787) ancora bambino, e predisse che sarebbe stato vescovo, sarebbe
vissuto fino a novant'anni e che avrebbe operato grandi cose per Gesù Cristo.
Smisurato fu anche l'amore di P. Francesco per i poveri. Fin dal mattino essi lo attendevano presso l'altare e durante la giornata affollavano la sagrestia o assiepavano il suo confessionale per
avere da lui sussidi, per affidargli un affare, per implorare giustizia contro gli oppressori. Per suo tramite, somme incalcolabili passarono dalle mani dei ricchi a quelle dei poveri. Poiché
ogni giorno, a mensa, egli si privava del meglio per riservarlo ai bisognosi, i confratelli si domandavano come facesse a vivere. Visitando i diversi collegi dei gesuiti o le case private, si
faceva dare capi di biancheria e abiti smessi, ne faceva dei grossi fagotti e, tornato a casa, passava le ore notturne a rammendarli per i poveri. I miseri si erano fatta una opinione esagerata
della sua possibilità di sovvenirli. Chi rimaneva senza sussidi insisteva fino alla noia non credendo che egli non disponesse più di niente, ma egli ripeteva con eroica pazienza: "Figlio mio, non
ho più nulla".
Non minore fu la sollecitudine di P. Francesco per i malati più miseri e ributtanti. A Napoli non c'era moribondo che non desiderasse averlo accanto al proprio capezzale perché possedeva un'arte
speciale per calmare le coscienze più agitate. I portinai di "Casa professa" erano meravigliati di trovarlo sempre intento allo studio o alla preghiera quando lo andavano a chiamare nel cuore
della notte per qualche infermo grave. Sul letto di morte egli confidò di avere guarito oltre 10.000 malati mediante l'intercessione di S. Ciro. Francesco De Geronimo brandì fino all'ultimo mese
della sua vita la spada della parola di Dio, e morì, come aveva per sette volte predetto, l'11-5-1716. Pio VII lo beatificò il 2-5-1806 e Gregorio XVI lo canonizzò il 26-5-1839. Le sue reliquie
sono venerate a Grottaglie (Taranto) nella chiesa eretta dai Gesuiti in suo onore.
___________________S.Francesco De Geronimo
Sac. Guido Pettinati SSP,
I Santi canonizzati del giorno, vol. 5, Udine: ed. Segno, 1991, pp. 166-171.
http://www.edizionisegno.it/
Francesco Saverio Petagna, nato a Napoli il 13 dicembre 1812, da giovane studente si distinse subito per pietà e
intelligenza.
Ordinato sacerdote a soli 23 anni, si dedicò prevalentemente all'apostolato delle cappelle serotine, alla catechesi popolare e al servizio degli ammalati nell'ospedale degli
Incurabili. Fondò la rivista cattolica "La scienza e la fede" insieme con altri studiosi napoletani, tra cui il D'Avanzo, il Sanseverino e il
D'Amelio.Eletto vescovo di Castellammare di Stabia a 38 anni, guidò la diocesi stabiese per 28 anni, dal 1850 al 1878, durante i quali si distinse
per la sua eccezionale dottrina, la prudenza pastorale e soprattutto la sollecitudine amorosa verso i deboli e i lontani. Allontanato dalla sede episcopale per i moti del 1860, fu inviato da Pio
IX a Marsiglia dove si fece notare per la predicazione continua, l'assiduità al confessionale e l'amministrazione del sacramento della
Cresima. Finalmente il 14 dicembre 1866 poté rientrare nella sua diocesi, accolto con grande gioia dal clero e dai fedeli. Partecipò al Concilio Vaticano I (1870) dove
notevole fu il suo contributo alla riflessione teologica in difesa del dogma dell'infallibilità del Papa.Durante il suo ministero episcopale il
Petagna approvò con decreto vescovile due famiglie religiose: le suore Compassioniste e le suore
Alcantarine e fondò laCongregazione delle Vittime dei Sacri Cuori di Gesù e Maria chiamate oggi Religiose dei Sacri Cuori di
Gesù e Maria, alle quali affidò come ideale l'impegno della riparazione, un amore grande per la Chiesa e per il Vicario di Cristo, l'educazione morale e letteraria della gioventù.
Malato di leucemia, morì povero il 18 dicembre 1878.
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Monsignor.Francesco Saverio Petagna fondatore Religiose sacri cuori di Gesù e Maria