Giovan Filippo Ingrassia nacque nel 1510 a Regalbuto, in provincia di Catania, destinato a diventare uno dei principali rappresentanti della scuola anatomica meridionale, nonché Protomedico della Sicilia, dottore di Chirurgia allo Studium napoletano, fu scopritore dell’osso della staffa e classificatore della rosolia, e ancora ordinatore degli studi di Medicina, Veterinaria e Farmacia in Sicilia, e sovrintendente la Deputazione di Sanità durante la peste che devastò Palermo nel 1576.
Ingrassia apparteneva ad una famiglia del ceto civile, il padre era infatti un giureconsulto così come lo sarà l’altro figlio Niccolò. Gian Filippo ebbe un’istruzione classica, studiò medicina a Palermo con Giovan Battista de Petra, dal quale assorbì le idee “novatrici” che provenivano dal nord Europa che la dominazione spagnola, pur avendo alzato ai confini del regno del Papa una sorta di cortina contro la modernità, non aveva potuto fermare. Da De Petra Ingrassia apprese la necessità di riunificare l’arte medica artificiosamente divisa tra “phisica” (medicina internistica) e chirurgia, abbandonata nelle mani dei “pratici” ,dei ciarlatani e dei barbieri. Ma per fare questo occorreva dotarsi di una profonda conoscenza dell’anatomia ancora studiata sui testi greci e non su autopsie di corpi umani. Inoltre Ingrassia auspicava l’unione delle due medicine, quella asclepiadea e quella igienica e quindi igiene: profilassi dietetica dovevano essere ugualmente insegnati con pari dignità delle altre discipline a chi si preparava per svolgere l’arte medica.
Nel 1532 Ingrassia si trasferì all’ Università di Padova dove studiò Medicina, addottorandosi nel 1537. Studiò col fiammingo Vesalio, che era allora explicator chirurgiae e grande fautore della ricerca delle cause delle malattie “ex mortis” con l’autopsia, e non “ab origine” seguendo il metodo tetra-umorale di Galeno.
Non sappiamo se Ingrassia ebbe modo di seguire a Padova gli studi di Giovan Battista da Monte, clinico, che seguendo gli stessi principi dell’anatomista belga teneva i suoi corsi al letto del paziente confrontando con i libri i sintomi, la diagnosi e la terapia, controllando di continuo l’utilità o l’inutilità dei trattamenti prescritti.
Delle prime esperienze siciliane e del periodo veneto è testimone la “Iatropologia adversus barbaros”, scritta a Napoli nel 1547, dove Ingrassia espone tutta la sua nuova concezione della medicina e le sue perplessità circa l’osservanza di quanto Galeno, Ippocrate e gli Arabi avevano tramandato ai moderni.
Nel 1544 don Pedro de Toledo, vicerè di Napoli, lo chiamò a ricoprire la carica di professore di anatomia e medicina teorica e pratica all’Università della città. Bisogna ricordare che, prima della sua nomina, Ingrassia era medico personale di Isabella di Capua, moglie di Ferdinando Gonzaga, che più volte dal 1531 al 1546 fu vicerè di Sicilia.
Il periodo napoletano di Ingrassia, che terminò nel 1553 con il suo ritorno definitivo in Sicilia, corrisponde al fiorire dello studio dell’anatomia allo Studium partenopeo, ed al perfezionamento del metodo che egli applicherà poi in Sicilia quando riordinerà gli studi di medicina.
Nel 1546 Ingrassia modestamente dice di “trovare”, non di “scoprire” l’esistenza del terzo ossicino dell’orecchio: la staffa, ma alla sua grandezza si devono anche altre scoperte anatomiche come la distinzione di tutte le piccole parti delle ossa del neurocranio, lo studio accuratissimo delle paia dei nervi cranici e ancora quelli delle apofisi vertebrali. Ingrassia dimostrò con autopsie comparate come alcune descrizioni anatomiche dell’uomo fatte dagli antichi si riferissero in realtà ad ossa o organi di animali o primati e senza rinnegare i classici, Ingrassia si battè per un oggettività empirica dell’arte medica che non gli impedì di usare il guaiaco (come cicatrizzante) nella cura delle ferite, sebbene tale sostanza fosse usata per il trattamento della sifilide.
La “Iatropologia” fu completata dai divulgativi “Scholia” nel 1549, e nel 1553 Ingrassia pubblicò il primo volume di un’opera di grande respiro sui tumori il “De Tumoribus”, ma alla morte del vicerè de Toledo, cui l’opera era dedicata, l’autore preferì lasciare Napoli per Palermo, accettando l’incarico di pubblico lettore di medicina offertogli dal vicerè di Sicilia Giovanni de Vega, per uno stipendio di cento onze annue.
Così nel 1553/54 Ingrassia cominciò ad insegnare un programma di medicina impostato sui classici e sulla medicina araba, ma quelle che aveva chiamato le “barbarorum nugae” ben presto uscirono dalle sue lezioni e l’allievo di Vesalio diede ai suoi corsi uno spirito fortemente innovativo, basandoli sulle “notomie” cui accorrevano medici e studenti di tutta l’isola.Così come già a Napoli le sue lezioni erano frequentate da tanti medici del regno. La fama e il prestigio di Ingrassia crebbero nel corso degli anni: nel 1555 lo stipendio annuo gli fu aumentato a 120 onze, nel 1563 divenne Protomedico del Regno.
Con le “Costituzioni Protomediche” limitò l’autonomia concessa fino ad allora ai barbieri e ai cerusici cui era dato libero accesso alla chirurgia, prescrisse anche per i “doctores” la discussione di tesi e cominciò a dirigere con mano ferma, ma competente, l’attività di tutti quanti si occupassero sull’isola di medicina, veterinaria, farmacia e chirurgia.
Quando nel 1575 la peste (malaria?) sconvolse Palermo Ingrassia fece fronte all’evento con scienza e rigore anche verso l’autorità: insistette presso il vicerè per il prosciugamento di una palude, il Papireto, presso la città così che il “pestifero morbo” scemasse, chiese che anche i privati partecipassero alle spese per il mantenimento della salute pubblica prospettando l’uguaglianza delle persone di fronte al diritto alla salute, un concetto certamente rivoluzionario per l’epoca. La peste di Palermo fu affrontata con misure draconiane, e in virtù del credito che Ingrassia riscuoteva presso le autorità, le sue richieste in ordine di igiene, quarantena, misure di prevenzione e attività di Magistratura di Sanità furono tutte accolte e attuate. Ci furono delle resistenze, ma il prezzo che pagò Palermo fu poca cosa rispetto agli eventi simili di altre città italiane. Quando nel secolo successivo la peste sconvolgerà Napoli e tutto il sud Italia, purtroppo Marco Aurelio Severino non avrà interlocutori attenti come quelli di Ingrassia.
Dell’esperienza fatta durante la peste del 1575 Ingrassia scrisse nel “Informazione del pestifero e contagioso morbo il quale affligge et have afflicto la città di Palermo” nel 1576, nella quale espone i principi base di epidemiologia preventiva e medicina legale.
Giovan Battista Ingrassia, oltre che grande medico e anatomista, fu anche il classificatore del morbillo, della rosolia, della scarlattina, ma come uomo del Rinascimento sentiva ancora il fascino di alcune credenze di cui non voleva liberarsi: attribuiva valore curativo allo smeraldo, al bezoar, al bolo armeno e alle pietre di S. Paolo, ma questo non ne sminuisce la grandezza, bensì lo colloca nel giusto contesto storico-culturale.
Nel 1580 a 70 anni per una “malattia di petto” si spense a Palermo uno dei più importanti protagonisti della Rivoluzione scientifica italiana. Nel 1603 uscì postumo, a cura del suo allievo Matteo Doria, l’opera “De Ossibus”, pubblicata grazie all’interessamento del nipote di Ingrassia. I funerali furono pubblici ed a spese dello stato. La grandezza e il valore di Ingrassia furono tali che fu chiamato “l’Ippocrate siculo”, ma purtroppo a distanza di secoli solo pochi addetti ai lavori sembrano ricordarlo.
Continuatore dell’opera del siciliano fu il calabrese Marco Aurelio Severino, che per tanta parte della sua vita visse e lavorò a Napoli, dove insegnò anatomia e medicina, e dove praticò la chirurgia nell’ospedale degli Incurabili, tra l’ammirazione degli studenti e l’invidia dei colleghi.